L’umano nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: l’inconscio artificiale nella fantascienza
di Christiano Presutti
[una prima versione di questo testo è stata redatta come introduzione a un saggio dallo stesso titolo scritto a quattro mani con Emanuela Piga Bruni nel 2019, disponibile online su Between, il journal peer-reviewed e open access dell’Associazione per gli Studi di Teoria e Storia comparata della Letteratura; questa seconda versione, che contiene correzioni minori, è riportata nel libro La Macchina Fragile (Carocci, 2022) di Emanuela Piga Bruni]
0 — Introduzione
0.000 — Poetical Science
Londra, Gran Bretagna, 1855. Il Partito degli Industriali Radicali guidato da Lord Byron controlla l’impero coloniale che controlla il mondo, forte del suo esercito di macchine volanti, corazzate, carri armati, e di un primato tecnologico incontrastato. La realizzazione e la diffusione capillare della macchina analitica a vapore di Charles Babbage ha garantito all’Inghilterra l’egemonia tra le nazioni, la Francia di Napoleone III è un impero minore, gli Stati Uniti, la Germania e le altre sono deboli e divise. Théophile Gautier è un hacker, Keats è un designer di spettacoli digitali, Shelley è prigioniero in esilio a Sant’Elena per avere guidato i luddisti durante le rivolte, Marx è a capo del Comitato Centrale della Comune che controlla Manhattan. La contessa Augusta Ada Byron, figlia del Primo Ministro, è un genio della matematica, con i suoi algoritmi anticipa i teoremi di Gödel. È chiamata da tutti la Regina delle Macchine.
Il secolo decimonono descritto in The Difference Engine (tr. it. La macchina della Realtà), il romanzo steampunk di William Gibson e Bruce Sterling pubblicato nel 1990, è quello di un passato ucronico in cui la rivoluzione informatica è stata anticipata di circa un secolo grazie alla realizzazione effettiva dell’Analytical Engine, il proto-computer progettato e mai costruito dal matematico inglese Charles Babbage attorno al 1830.
Nella nostra linea temporale, quella che è nei nostri testi di storia, Lady Ada Byron non è stata un genio riconosciuto della matematica, e non ha frequentato suo padre, che aveva lasciato la famiglia poco dopo la sua nascita ed era poi morto lontano, in Grecia, solo alcuni anni più tardi. Nella nostra linea temporale Ada Lovelace, née Byron, è nata a Londra nel 1815. Aveva ricevuto una buona educazione nella matematica e nelle scienze. che aveva studiato soprattutto per corrispondenza in un periodo in cui era diffusa l’idea che gli studi accademici e l’alta formazione fossero contrari alla natura delle donne, o che troppa conoscenza potesse renderle meno fertili. A ventiquattro anni, dopo essersi sposata e avere concepito tre figli, era tornata ai suoi studi e si era interessata ai lavori dell’illustre matematico e inventore Charles Babbage, che aveva avuto occasione di conoscere quando era ancora diciassettenne. Ada è ricordata in particolare per le sue Note alla traduzione di un articolo sulla Macchina analitica pubblicate nel 1843, dopo mesi di lavoro e un intenso scambio alla pari con lo stesso Babbage. Nonostante la sua morte prematura a soli trentasette anni e l’esigua quantità di produzioni scientifiche, il suo contributo alla storia dell’informatica oggi gode di ampio riconoscimento. L’algoritmo per calcolare la sequenza dei numeri di Bernoulli che aveva inserito nelle Note è considerato il primo programma per computer pubblicato al mondo, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha dato il suo nome a un linguaggio di programmazione, il New York Times le ha dedicato nel 2018 un necrologio tardivo [1], Google uno dei suoi “doodle” per la Giornata Internazionale della Donna nel 2012 [2].
L’abilità di coniugare le scienze e l’immaginazione emerge dai suoi scritti, che sono redatti secondo un procedimento che lei stessa aveva chiamato “poetical science” [3]. Gli studiosi concordano che le applicazioni pratiche delle idee di Ada Lovelace nel contesto della sua stessa epoca sono di un interesse modesto se paragonate alla suggestione da lei introdotta sul futuro dei calcolatori come macchine universali, l’ipotesi che la Macchina Analitica potesse «agire su altre cose, oltre che sui numeri» [4]. In una delle sue Note, Lady Lovelace aveva scritto:
[The Analytical Engine] holds a position wholly its own; and the considerations it suggests are most interesting in their nature. In enabling mechanism to combine together general symbols, in successions of unlimited variety and extent, a uniting link is established between the operations of matter and the abstract mental processes […]. A new, a vast, and a powerful language is developed for the future use of analysis […]
In un modo, affermando questi princìpi, Ada era andata oltre le visioni già geniali e avveniristiche di Babbage sul possibile tecnologico, era divenuta la prima persona a superare il confine del concepire semplici apparecchiature utili al calcolo numerico con l’idea, oggi acquisita, di dispositivi automatici capaci di realizzare operazioni astratte sulla base di sostituzioni simboliche. Nel dare forma a una scienza poetica, nel suo tempo Ada aveva immaginato l’impossibile, pensando una cosa mai pensata prima (Fuegi — Francis, 2003).
0.001 — Scientific Poetry
Durante la seconda rivoluzione industriale, tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento, nuovi paradigmi hanno reso sfocati i confini tra scienze naturali e scienze umane. Una nuova visione dell’universo avrebbe portato il mondo scientifico a orientare il proprio punto di vista verso il dominio umanistico e viceversa, in un gioco di specchi e scambi di ruolo che si è protratto sino a oggi e che caratterizza le moderne discipline scientifiche interdisciplinari.
Verso la fine del secolo diciannovesimo, i fisici consideravano la loro disciplina compiuta, intrinsecamente coerente e ordinata dalle equazioni di Newton nella meccanica e da quelle di Maxwell nell’elettricità. Abitavano un mondo in cui i fenomeni della natura erano regolati da leggi in cui il tempo è una grandezza universale, in cui tutti gli orologi, una volta sincronizzati, camminavano con lo stesso passo indipendentemente dal sistema di riferimento in cui si trovavano. L’irruzione della fisica moderna, con la relatività e la meccanica quantistica, pose in crisi i principi consolidati riguardo la materia, lo spazio, il tempo, la rappresentazione della realtà e il ruolo dell’osservatore, le cui azioni e la cui mente erano divenute parte integrante del sistema osservato. Quando il mondo della scienza fu toccato dall’idea che è impossibile osservare un sistema senza perturbarlo, che osservare significava interagire, le conseguenze furono tali che ogni scienziato era portato a divenire filosofo, a invadere il campo umanistico mentre approcciava l’epistemologia e si interessava di teologia, psicologia, linguistica o delle teorie della cognizione. Eminenti scienziati come Werner Heisenberg o Erwin Schrödinger non poterono rinunciare a indagare il significato filosofico e ‘umanistico’ del risultato delle loro stesse ricerche [5]. Heisenberg, ad esempio, nel presentare le teorie della fisica contemporanea, «mise in rilievo il fatto che le leggi della natura non avevano più a che fare con le particelle elementari, bensì con la conoscenza che noi abbiamo di queste particelle, cioè con il contenuto della nostra mente» (Morowitz [1980] in Dennett — Hofstadter 1985: 48).
Per quanto ne so io, non era mai accaduto, nella storia della scienza, che tutti i ricercatori più eminenti scrivessero libri e articoli per esporre il significato filosofico e “umanistico” dei loro risultati. (Ibid.: 47)
Vi sono opere ascrivibili al genere fantascientifico che appartengono alla letteratura del diciannovesimo secolo, come il Frankenstein di Mary Shelley, Der Sandmann (L’uomo della sabbia) di E. T. A. Hoffmann o alcuni racconti di Edgar Allan Poe. Tuttavia la nascita della fantascienza [6] moderna è tradizionalmente collocata a inizio Novecento, in concomitanza con le rivoluzioni in ambito scientifico che arrivano ad affascinare il grande pubblico attraverso i media cartacei e la radio. Nella prima metà del secolo avviene il passaggio dalla proto-fantascienza del ‘romanzo scientifico’ alla Jules Verne o H.G. Wells alle ‘space opera’ e ai ‘pulp’ e ‘digest format magazine’, come Astounding Science Fiction, The Magazine of Fantasy and Science Fiction o Galaxy. La fantascienza moderna, in inglese nell’apparente ossimorica locuzione ‘science fiction’, nasce nutrendosi di frammenti del dibattito scientifico e filosofico del suo tempo, violandone i confini fino a produrre un apparato di teorie autonome che finiscono per formare un ‘sistema fantascientifico’ abbastanza coerente e omogeneo. Si sviluppano così idee pseudoscientifiche ricorrenti e utilizzate da più autori, che restano in auge fino a quando non sono messe in crisi da nuovi progressi della scienza e, di conseguenza, da nuove ‘teorie fantascientifiche’ che rendono le precedenti obsolete (Cfr. Giovannoli, 2015).
Alcune di queste idee sono state particolarmente fortunate, come gli “universi paralleli” di Murray Leinster o il “cervello positronico” di Isaac Asimov, e a volte sono state recuperate dalla scienza stessa che si è dimostrata non immune all’influenza di quell’immaginario. A cavallo tra gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso, le idee attorno alla macchina intelligente e al problema dell’emergenza della coscienza acquisivano un posto di rilievo nella produzione filosofica, letteraria e tecnico-scientifica. Sono gli anni in cui Gilbert Ryle riformulava la posizione materialista a superamento del dualismo mente-corpo cartesiano e coniava la fortunata locuzione “ghost in the machine” [7] (1949), Philip Dick pubblicava un racconto come Impostor (L’impostore) [8] (1953), il cui protagonista dai modi coscienziosamente umani scopre solo alla fine di essere il robot ricercato dalla polizia, gli anni in cui Turing esponeva il suo famoso test [9] (1950) o in cui matematici e ricercatori come John McCarthy, Marvin Minsky e Claude Shannon organizzavano negli Stati Uniti la Conferenza di Dartmouth (Dartmouth Summer Research Project on Artificial Intelligence, 1956), considerata l’evento fondante della ricerca sull’intelligenza artificiale (Gazzaniga, 2008, p. 448.).
La fantascienza ha continuato a esplorare incessantemente il problema della coscienza artificiale attraverso le sue impossibili scommesse sul futuro, nei suoi racconti paradigmatici di un tempo distopico o di un tempo ucronico attivato da un ‘what if’. Nella pratica di un esercizio creativo che ha necessariamente a che fare con territori dai confini incerti, per i quali né le scienze naturali né quelle umane hanno sin qui fornito risposte soddisfacenti, gli autori di fantascienza hanno immaginato l’impossibile soluzione a un problema sinora «mai risolto né dai filosofi della mente, né dagli ingegneri dell’IA, né dai neuroscienziati» (Giovannoli, 2015).
0.010 — La mente artificiale
Abbiamo sin qui tentato di dare una collocazione storica e culturale ai temi di questo saggio, proposto alcune suggestioni di contesto e alcune idee di carattere generale sul rapporto e sulle ibridazioni reciproche tra scienza e letteratura di genere. A completamento di questa introduzione è giusto fornire una mappa minima del percorso attraverso cui il testo si sviluppa.
Daremo ancora uno sguardo alla ricerca e al dibattito interdisciplinari su attività e caratteristiche specifiche della mente, procedendo lungo quel pendio che si fa via via più opaco o misterioso. In breve, l’intelligenza, la coscienza e il subconscio, come fenomeni individuali e collettivi. Il punto di arrivo, e cuore del testo, è dato alla esplorazione di alcune narrazioni di genere in cui l’assunto scientifico di partenza è la riproducibilità tecnologica di quelle attività e caratteristiche.
In questa sede siamo interessati non a sottolineare gli aspetti tecnologici, ma a esaminare l’universo concettuale e simbolico in cui talune ipotesi si sono fatte strada nell’immaginario. Tuttavia le condizioni verosimili in cui l’uomo si appresta a creare versioni artificiali delle caratteristiche della mente attraverso la tecnologia sono ancorate alle definizioni che di esse si danno e che, vedremo, sono per loro natura incerte e dibattute.
L’Intelligenza artificiale è un’ipotesi eccitante divenuta via via più importante a partire dagli anni Cinquanta del ventesimo secolo. Oggi siamo quotidianamente bombardati da questa locuzione, causa anche le continue ridefinizioni di senso della parola ‘intelligente’ operate dal marketing. Così abbiamo il telefono intelligente, la lampadina intelligente, i contenuti intelligenti, il business intelligente e via discorrendo. Analogamente, l’espressione ‘cervello elettronico’ è stata utilizzata negli anni addietro per indicare macchine tutto sommato stupide, ma capaci di compiere calcoli poderosi per il loro tempo.
Le definizioni scientifiche di Intelligenza Artificiale sono state negli anni molteplici e soggette a revisioni. Esse sono state catalogate sulla base della maggiore o minore appartenenza ai domini del pensare o dell’agire e in relazione a due categorie di comportamento, ‘umano’ da una parte e un più astratto ‘razionale’ dall’altra: pensare in maniera umana, agire in maniera umana, pensare in maniera razionale e agire in maniera razionale.
Una definizione contemporanea del campo di ricerca sull’Intelligenza Artificiale fa ricorso al concetto astratto di ‘agente intelligente’: un’entità autonoma che è in grado di percepire l’ambiente in cui si trova attraverso dei ‘sensori’ e che agisce per il raggiungimento di determinati obiettivi tramite degli ‘attuatori’. In un essere umano, per esempio, i sensori sono le facoltà sensoriali, gli attuatori le mani o la lingua o altre parti del corpo a seconda della funzione. In questa ottica è possibile definire il campo dell’Intelligenza artificiale come lo studio di agenti intelligenti artificiali [10].
La ricerca ha posto da più angolazioni il problema di quali possano essere i limiti della riproduzione artificiale dei meccanismi della mente. In particolare è divenuto a un certo punto naturale chiedersi se una macchina sufficientemente complessa possa diventare consapevole dei propri stati mentali e delle proprie azioni e, di conseguenza, sviluppare una forma di ‘coscienza artificiale’.
0.011 — Cosa è la coscienza
Non è segnata in nessuna carta: i posti veri non lo sono mai.
Moby Dick, Melville
«La coscienza è il connotato più ovvio e insieme più misterioso della nostra mente» (Dennett — Hofstadter 1985, p. 19). Se da un lato appare evidente a ciascuno di essere un soggetto di esperienza, capace di percezioni o di prendere decisioni, consapevole della propria consapevolezza, dall’altro ci chiediamo come facciano corpi viventi nel mondo fisico a dare luogo a questo fenomeno.
Lo studio della coscienza, continuamente strattonato da più parti in un trambusto di riflessioni filosofiche e scoperte scientifiche, è pieno di “problemi”: il problema mente-corpo [11], il problema delle altre menti [12], il problema della mente animale [13], l’‘hard-problem’ con gli ‘easy problems’ [14] e via discorrendo. Questi sono solo i temi recenti di un dibattito che nella moderna cultura occidentale va avanti da quasi quattrocento anni, da Cartesio, Locke, Leibniz agli studiosi delle scienze cognitive contemporanee. In primo luogo non esiste una teoria condivisa e soddisfacente della coscienza e non c’è neppure un accordo su come dovrebbe essere una teoria della coscienza. Per alcuni non esiste un solo tipo di coscienza, per altri tutto avviene a livello biologico o fisico nel cervello, altri ancora sostengono le ipotesi di embodiment e enactivism (Thompson, 2007, p.13) e il manifestarsi della coscienza richiede la partecipazione di tutti gli aspetti di un corpo agente e delle interazioni tra organismo e ambiente, altri infine sono giunti a sostenere che non esiste un’entità reale che possa corrispondere alle sue molteplici definizioni.
Per soddisfare — in questa sede solo parzialmente — le curiosità circa i problemi citati, si segua il seguente ragionamento classico. Io so di avere un cervello, come so di avere il fegato o il cuore, mi è stato mostrato, è possibile verificarlo con l’aiuto di macchine apposite o, in maniera più cruda, aprendo il mio corpo. La conoscenza della mia mente però è una questione più intima. Il percepire la ‘coscienza’ l’azione in cui la mente osserva se stessa, è caratterizzato da un punto di vista non solo privilegiato ma diverso da tutti gli altri, perché a me sembra evidente che il mio punto di vista su cosa si prova a essere me sia migliore di quello di qualsiasi altro. Di contro posso solo inferire ipotesi di carattere generale sull’esistenza e sul funzionamento delle altre menti, derivandole dall’esperienza quotidiana e dall’evidenza che gli altri hanno il mio stesso aspetto e ‘sono vivi’ apparentemente così come io lo sono. Il problema ‘delle altre menti’ discende direttamente dalla specificità del punto di vista. Da qui il dibattito, le intuizioni e la ricerca nelle scienze cognitive si espandono in innumerevoli ramificazioni scientifiche e filosofiche. Nella giostra delle ipotesi si può andare dal solipsismo — “sono l’unico essere cosciente dell’universo” — al panpsichismo [15] — “la coscienza è in ogni cosa dell’universo”.
Con l’esigenza di definire gli stati della coscienza, si è fatto ricorso a espedienti che provano a mettere d’accordo gli aspetti di carattere fisiologico con quelli intangibili dei processi mentali. Un esempio è rappresentato dai cosiddetti ‘qualia’, stati qualitativi primitivi e irriducibili che esistono nella nostra mente e caratterizzano univocamente qualsiasi esperienza cosciente. I sostenitori dei qualia cercano di confutare le posizioni materialistiche in cui si adottano termini puramente fisico-biologici e funzionali. Sebbene il loro significato sia riconosciuto, queste idee sono osteggiate non solo dagli scienziati materialisti e riduzionisti, ma anche da molti filosofi della mente che ne disconoscono l’utilità, perché il concetto è confuso o le argomentazioni a sostegno risultano contraddittorie [16].
A partire dagli anni Sessanta il numero di produzioni scientifiche su questi temi si è moltiplicato e negli ultimi anni ha raggiunto numeri esorbitanti, nonostante le lacune epistemiche e ontologiche continuino a lasciare sul tavolo le domande di base e le posizioni siano ancora riconducibili a correnti di pensiero materialistico da una parte (fisicalismo, riduzionismo neurobiologico…) e dualistico dall’altra (per cui i processi della mente occupano uno spazio ontologico separato da quello fisico).
0.100 — La coscienza artificiale o immaginare l’impossibile
Una tra le principali questioni che dividono scienziati ed epistemologi è se la coscienza sia un semplice sottoprodotto dei processi di elaborazione dell’informazione, e quindi in linea di principio riproducibile anche su un computer, o se invece derivi da caratteristiche specifiche del cervello.
I non-fisicalisti e gli anti-riduzionisti come John Searle sono su posizioni che negano la riproducibilità tecnica della mente, e nello stesso campo sono schierati anche alcuni fisici e scienziati. Per esempio l’insigne matematico Roger Penrose ha elaborato un modello della mente secondo cui la coscienza sarebbe il prodotto di fenomeni che avvengono a livello quantistico nei microtubuli dei neuroni, quindi di tipo probabilistico, non interamente determinato: ne deduce che se quei fenomeni operano secondo meccanismi non computazionali allora non sono riproducibili da un computer [17].
La coscienza artificiale è un problema estremamente complesso e ipotesi conclusive sono ancora oltre ogni orizzonte di ricerca. Lungo il percorso che segue, che ci porta a immaginare inconscio e subconscio della mente artificiale, cresce la distanza tra piano epistemico e piano ontologico, tra fisico e fenomenico. Il sentiero diventa inestricabilmente tortuoso ed enigmatico quando si compie l’ulteriore passo di concepire intelligenza, coscienza e inconscio in relazione al molteplice: le declinazioni artificiali di “intelligenza collettiva”, “coscienza collettiva” e “inconscio collettivo” moltiplicano le ipotesi e i riferimenti, nella proliferazione di forme e simboli dei paradigmi olistici.
Pensare e rappresentare la riproduzione artificiale tecnologica di queste caratteristiche della mente del singolo e della collettività sono elementi comuni alle opere prese in esame di seguito. I loro autori hanno osato esplorare territori in cui quanto ci appare di più umano è familiare è allo stesso tempo estraneo, disseminati di luoghi oscuri e inaccessibili, in cui siamo sopraffatti dagli enigmi e dalle lacune. Se coscienza e inconscio sono concetti familiari eppure misteriosi, nella sede di questo saggio immaginare l’impossibile è indagare l’immaginare la loro riproducibilità tecnica.
Il saggio completo è disponibile online in formato PDF su Between Journal.
Note al testo
[1] Cfr. C. Cain Miller, Ada Lovelace. A gifted mathematician who is now recognized as the first computer programmer, “The New York Times”, https://www.nytimes.com/interactive/2018/obituaries/overlooked-ada-lovelace.html, 2018, web (last accessed 05/04/2019).
[2] Cfr. Ada Lovelace’s 197th Birthday, https://www.google.com/doodles/ada-lovelaces-197th-birthday, web (last accessed 05/04/2019).
[3] Cfr. Toole, 2010.
[4] «Might act upon other things besides number», in “Note A”, Taylor’s Scientific Memoirs, settembre 1843, firmato A.L.L.
[5] Cfr. Heisenberg, 1958, Schrödinger [1925] 1987.
[6] È stato da più parti sollevato il problema della definizione del genere fantascientifico, un magma narrativo dai confini imprecisi. Per una ricognizione aggiornata dei problemi di classificazione del genere, cfr. Arthur B. Evans, The Beginnings: Early Forms of Science Fiction in Science Fiction: A Literary History, a cura di Roger Luckhurst, The British Library, 2017, o John Rieder, On Defining SF, or Not: Genre Theory, SF, and History, “Science Fiction Studies”, Vol. 37. 2 (July 2010), pp. 191–209. A titolo di curiosità, è ancora disponibile online una lunga raccolta delle definizioni date da scrittori e studiosi compilata nel 1996 da Neyir Cenk Gökçe e citata da diversi critici: Definitions of Science Fiction, https://www.liveabout.com/definitions-of-science-fiction-2957771, web (last accessed 05/04/2019). Per una recente definizione del genere ‘science fiction’ che tiene conto del dibattito presente soprattutto in ambito anglofono, cfr. Micali 2019, pp. 5–15.
[7] «I shall often speak of it, with deliberate abusiveness, as ‘the dogma of the Ghost in the Machine’. I hope to prove that it is entirely false, and false not in detail but in principle». Da Ryle 2009, p. 5.
[8] Cfr. Dick 2002. Il racconto è stato pubblicato per la prima nel pulp magazine Astounding Science Fiction nel 1953.
[9] Turing presentò l’esperimento astratto nel famoso articolo Computing Machinery and Intelligence pubblicato sulla rivista “Mind” nel 1950. Una traduzione in italiano è disponibile in Dennett, Hofstadter 1985.
[10] «We define AI as the study of agents that receive percepts from the environment and perform action». Da Russell , Norvig, 2010, p. viii.
[11] Cfr. Nagel, 1998.
[12] Cfr. Avramides, 2001.
[13] Cfr. Nagel [1974] 1986.
[14] Il noto saggio di David Chalmers The Hard Problem of Consciousness è pubblicato in Velmans, Schneider (eds.) (2007, pp. 225–235).
[15] «Per panpsichismo intendo la teoria secondo cui i costituenti fisici fondamentali dell’universo hanno proprietà mentali, che siano o meno parti di organismi viventi» (Nagel (1979) 1986, p. 176).
[16] Cfr. Dennett, 2017. Il saggio è disponibile online all’indirizzo: https://ase.tufts.edu/cogstud/dennett/papers/AHistoryOfQualia.pdf. Dennett si è soffermato spesso sull’idea di qualia, criticandoli da una posizione avversa. Uno dei saggi più famosi è Quining qualia in Marcel, Bisiach (eds.), 1988.
[17] La teoria è stata elaborata da Penrose a partire dal 1989 in La mente nuova dell’imperatore, e ribadita anche di recente sulla base delle nuove scoperte delle neuroscienze.
[18] Nota vuota scaramantica senza rimando, anche se dicono che la superstizione porti sfortuna…
Bibliografia parziale
(Fare riferimento alla versione integrale per la bibliografia completa)
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