Proemio a Gigi Riva
Scritto con Luca Di Meo. Questo breve testo costituisce la prefazione al libro L’ultimo hombre vertical starring Gigi Riva di Luca Pisapia (Milieu, 2020).
È un manifesto futurista, spalle larghissime e vita molto sottile, che irrompe alla fine dei ’60.
È la classe operaia che va in paradiso, e poi in Messico, nel ’70.
È un urlo di dolore al Prater.
È magliette attillate e pettorali torniti.
È pomeriggi assolati, terreni di polvere e ciottoli e linee di gesso. È l’infanzia che comincia a svanire, con poca testa e poca voglia, contro una Polonia in ascesa, 1974.
È maglioni a collo alto sotto la giacca e sigaretta accesa.
È quanto di più simile a superman abbiamo avuto, per un paio di decadi, non c’era bisogno che parlasse.
È ricordo già prima che smettesse.
È la fine dell’illusione di poter essere grandi.
È il fùtbol subito prima del prodotto.
È la certezza che era già tardi, chissà poi perché.
Penso che da qualche parte giocasse ancora, prima.
Penso che potrebbe tornare a giocare, dopo.
Penso che tutti gli eroi hanno in comune la polvere, perché è la mia, non la loro.
Penso che ci vorranno anni, e forse non basteranno.
Penso che già facevamo un po’ di fatica, prima.
Penso che dopo, penso che dopo.
Il fùtbol è sempre esistito, giggirriva è sempre esistito, la polvere è sempre esistita, i ciottoli e le linee di gesso pure.
Troverà un modo.
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Prologo.
«Fui affidato a un collegio di religiosi. Ci costringevano a pregare per chi ci regalava il pane. Sono scappato più di una volta.»
Esterno giorno, presente narrativo, 1963. Luigi Riva, spalle larghe, vita stretta, muscolo lungo e sigaretta, dal Lago Maggiore al Mediterraneo. Il Riva, da una riva dolce a un’altra salata, a mettere assieme il continente e il west, in una terra di frontiera che non ha una frontiera da attraversare.
La Sardegna è un cuore arso al centro e bagnato ai bordi, indurito dalle acque infedeli che lo accarezzano. Nel 1963 la Sardegna è una terra di opportunità, o un osso da spolpare, dipende dallo sguardo o dalla fame. Ci sono i turisti e non sono italiani, sono inglesi, tedeschi. A nord est il principe shah Karim Aga Khan IV, imam dei musulmani ismailiti nizariti, la Setta degli Assassini, fa costruire Porto Cervo, la Costa Smeralda è la Florida. A sud, il Cavaliere Angelo Moratti da Somma Lombardo, una manciata di chilometri da Leggiuno, presidente petrolchimico del Football Club Internazionale Milano, fa costruire un gigantesco impianto di raffinazione. La California è il golfo di Cagliari, El Secundo è Sarroccu, la Standard Oil è la Saras.
A San Salvatore di Cabras, nel Sinis, per fare un pugno di lire si girano film western minori, come Giarrettiera Colt e Dio perdona la mia pistola no. Nel 1963 nel west arriva Luigi, all’Amsicora non c’è l’erba. L’opportunità in questo caso è reciproca, l’osso da spolpare, il perone, è il suo. Luigi non deve costruire niente, e non ci voleva neppure venire. Quando arriva si siede dalla parte dei nativi e balla con loro, a Cagliari si gira un colossal. Lo senti Sergio Leone trasfigurato in Manlio Scopigno? Luigi ha solo due espressioni, una con la tuta e una senza.
Cinquant’anni di aneddoti. Nell’ottobre del ’70, durante un allenamento a Roma, un tiro di Luigi ruppe il braccio di un bambino. Cinquant’anni di parole, tutte in fila, e ancora continuano, in bocca agli orfani di un orfano. È il solito racconto impossibile, del gioco che trascende il gioco, del presente inafferrabile che se ne è sempre appena andato, del rombo del tuono, che ti scuote quando il lampo è già svanito. Raccontare il calcio è un’utopia, è scavare buche che non servono a niente se non a noi stessi, a seppellirci dentro. Noi futbologi scaviamo. Epilogo. «Vedi, il mondo si divide in due categorie, chi ha la pistola carica, e chi scava». Metti il pallone al posto della pistola carica, e noi scaviamo.
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